Arte Arte Contemporanea Museografia e Museologia Storia dell'Arte

Il Tempio Malatestiano: “Ci volle leggiadra potenza dell’arte”

L’Alberti artista ci volle la leggiadra potenza dell’arte; Sigismondo innamorato, il fuoco dell’amore; entrambi colti e desiosi di gloria, la suprema idealità della cultura classica e dell’umanesimo.  (Corrado Ricci, 1904) 

Edificio sacro dedicato ‘a Dio immortale’, emblema e simbolo della raffinatezza del pensiero rinascimentale, il Tempio Malatestiano di Rimini è tra le più pregevoli e significative opere architettoniche del Quattrocento italiano.

Prima del Tempio…cenni di storia…

[…] bisognava essere umanisti ed artisti nello stesso tempo per sapere unire all’umile chiesa dedicata al più umile dei santi, un’espressione di splendore, di fasto e diciamo pure di vanagloria quale appare dal Tempio dei Malatesta. (Emilio Londi, 1906)

 Eretta dai monaci di Pomposa tra l’VIII e il IX secolo, o addirittura ancor prima, con il nome di Santa Maria in trivio, la struttura sacra inglobata nel Tempio Malatestiano è l’antica chiesa trecentesca di San Francesco. 

Veduta del Tempio malatestiano con l’istallazione, del 2010, del Cracking Art Group; © Archivio fotografico del Comune di Rimini, foto di Gilberto Urbinati

Come ben illustrato dal Pasini: 

Della primitiva Chiesa benedettina ceduta dai monaci di Pomposa ai Francescani ci rimane solo la traccia delle fondamenta dell’abside, sotto il pavimento dell’attuale chiesa (era semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, come quasi tutte le chiese bizantine ravennati). I Francescani, subito dopo esserne entrati in possesso (1254), la ricostruirono più grande, ma senza cambiarne l’orientamento. Anche della Chiesa francescana ci rimane poco: qualche brandello di muro inglobato nella facciata e nel fianco destro dell’attuale edificio; ma i lavori di restauro del dopoguerra ne hanno rivelato caratteristiche ben precise […]

La Chiesa francescana, difatti, si presentava ad un’unica navata, con un rosone corredato da due finestre sulla facciata principale, una copertura a capanna e un’abside a pianta quadrata, a cui si affiancavano due cappelle minori. 

La chiesa, pur sempre vicina al convento francescano, sorgeva alla periferia della città, in un vasto territorio molto vicino al mare e caratterizzato per lo più da un’atmosfera insalubre. Per questo motivo, infatti, l’area ottemperava al ruolo di cimitero, che già dalla fine Duecento, aveva trovato larga richiesta di sepoltura da parte dei nobili e signori della città. 

Se nel corso degli anni il convento iniziò ad ampliarsi, fu nel 1447 che Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e Fano, posò la sua attenzione sulla Chiesa di San Francesco. Dalla primissima annessione di grandi cappelle, si passò ben presto all’idea di ampliare e trasformare l’intero edificio, rimasto formalmente di proprietà dei frati francescani. 

Per attuare questo monumento, suprema attestazione di potenza e ambizione, Sigismondo si rivolse a Leon Battista Alberti e siffatta scelta soltanto basta a indicarci con quanta acutezza egli sapesse conoscere gli uomini e indovinare i caratteri del suo tempo. L’Alberti non era ancora noto per nessuna grande opera architettonica […] con ogni probabilità intorno al 1445, entrò in contatto con Sigismondo Malatesta. Non credo che in quell’anno il signore di Rimini vagheggiasse già l’idea di ridurre la gotica chiesa di S. Francesco, a tempio glorificatore della sua famiglia. Ma certo fin dai primi colloqui i due grandi uomini del Rinascimento si compresero e si ammirarono a vicenda, e quando pochi anni dopo Sigismondo affidò all’Alberti l’esecuzione del difficile lavoro, fu sicuro di trovare in lui l’interprete fedele della sua sconfinata ambizione, come l’Alberti, disegnando l’edificio a Sigismondo, era sicuro di prestare l’opera sua ad un signore che sapeva apprezzare l’altezza dei suoi ideali.  (Emilio Londi, 1906)

La storia della costruzione del Tempio, analizzata a posteriori, sembra accompagnare e intrecciarsi come non mai con le vicende personali di colui che «per vederla compiuta, aveva cercato con sacrifici o con violenze di superare tutte le difficoltà». L’inizio dei lavori per il rifacimento della chiesa, infatti, prende avvio nel periodo in cui Sigismondo è celebrato come cavaliere invincibile e giungerà all’epilogo intorno al 1460, quando come racconta Pier Giorgio Pasini «cominciarono le sventure di Sigismondo; ormai isolato politicamente, scomunicato dal papa e sconfitto da Federico di Montefeltro».

Ed invero questo condottiero che unisce la cavalleria al tradimento, il mecenatismo alla crudeltà […] terribile nei suoi odi come nei suoi amori, nel suo valore come nella sua ambizione. Il Papa l’offende: egli s’arma di un pugnale, monta a cavallo e via per sette giorni al galoppo, senza riposo, senza timore, via a Roma, animato dalla vendetta […] Già condottiero delle truppe pontificie, medita poi, quando tutti lo abbandonano per i suoi tradimenti, di chiamare i Turchi in Italia; conoscitore dell’arte militare quanto nessun altro al suo tempo, preferisce il più delle volte , per pura malvagità, di vincere con l’inganno e con la perfidia; i principi d’Italia lo ammirano, lo ricercano, lo temono finché un bel giorno si riuniscono tutti per disfarsene. (Emilio Londi, 1906)

La chiesa, rimasta incompiuta, tornò sotto la guida effettiva dei Francescani, che la mantennero sino al 1796, ovvero sino a che Napoleone non fece trasferire la cattedrale della città in suddetta chiesa. Se la traslazione effettiva delle funzioni di cattedrale avvenne nel 1809, è nel corso del Secondo conflitto mondiale che l’edificio fu colpito da quei bombardamenti che distrussero l’abside, la copertura, la sagrestia e gran parte dell’arredo.  La chiesa fu poi riconsacrata nel 1950, con al seguito diversi interventi di restauro.  Dal 2002 ha titolo di basilica minore. 

Templum: un edificio simbolo dell’Umanesimo 

Di queste spezie e varietà di edifici (gli antichi) ne abbiamo fatta qui menzione, non per trasferirle nella presente nostra opera, o perché noi quasi astretti dalla regola e norma di queste le abbiamo a ogni modo a seguitare, ma solamente a questo fine, che ammoniti da queste varie spezie di edificazioni, ci sforziamo con le nostre nuove invenzioni di agguagliarci a quelle, o veramente per laude superarle. (Leon Battista Alberti, 1452)                   

La denominazione Tempio Malatestiano per quell’edificio la cui nomenclatura ufficiale sarebbe Basilica cattedrale di Santa Colomba, entrò in uso nel Settecento, allorquando si fece riferimento allo spirito e al latino umanistico per designare la natura di un edificio sacro. 

Tra gli aspetti più sorprendenti e caratteristici del Tempio vi è la contrapposizione tra la linearità e il rigorismo delle forme classicheggianti esterne, fortemente volute e celebrate dal progetto dell’Alberti, e il ricco decorativismo degli spazi interni, di gusto prettamente cortese. Pasini, a tal proposito, sottolineerà come ad unificare una tale discromia vi sopraggiunga un «chiaro intento celebrativo: all’esterno del principe come uomo nuovo che domina la storia, all’interno del principe che si compiace della sua ricchezza, della sua corte di eruditi e cortigiani».

[…] perché bisognava conoscere e sentire tutta la grandezza dell’arte antica, tutto lo sfrenato desiderio pagano di godimento e di gloria del condottiero riminese per immaginare un simile edificio.   (Emilio Londi, 1906)

L’esterno. Un progetto di Leon Battista Alberti 

Il desiderio di gloria che gli studi di umanità avevano destato in Leon Battista Alberti infiammava pure l’animo fiero di Sigismondo Pandolfo Malatesta […] pericoloso e terribile […] è nello stesso tempo una delle menti più elevate del secolo XV: protegge e incoraggia, con quell’entusiasmo che pone in ogni sua azione, letterati e artisti, filosofi e scienziati, in una spedizione in Morea ritrova la salma di Gemisto Pletone e la riporta in Italia dandole degna sepoltura. Il signore di Rimini conosce anche l’amore nobile, leale, sincero, e ad Isotta degli Atti, la donna superiore che riconosce degna del suo affetto costante, dirige poesie piene di tenerezza e di dolcezza.  Un’idea sopra tutte lo guida e lo tormenta, l’idea dell’immortalità; per essa si circonda di poeti che cantino il suo nome, di artisti che tramandino le sue sembianze […] e immagina un monumento dove al ricordo della sua fede si unisca la glorificazione dei suoi antenati, dove la tomba sua e della sua bella siano per sempre circondate dai dotti […] (Emilio Londi, 1906)

Il rifacimento esterno dell’edificio malatestiano, come già detto, fu affidato a Leon Battista Alberti, che proprio in quel periodo si apprestava alla conclusione del suo noto trattato sull’architettuta, De re aedificatoria: 

Solo un’intelligenza ampia e versatile come quella di un uomo del Rinascimento poteva comprendere e distribuire in ordinamento logico tutto ciò che concerne l’arte di edificare, dai vari modi di cuocere i mattoni fino ai più alti principi di estetica; perché se da un lato l’architettura è fra le arti più belle la più docile a mettersi sotto l’impero di leggi fisse, dall’altro è quella che abbraccia il maggior numero di problemi e assurge ad importanza civile e sociale. L’Alberti non rivolge il suo trattato solo agli artisti, ma a tutte le persone colte che desiderino arricchire le loro cognizioni, e nella sua idea l’architetto diviene qualcosa di più nobile […] (Emilio Londi, 1906)

Se difatti egli nel 1450, fu ospite a Roma presso la corte pontificia in qualità di abbreviatore apostolico, si ritiene che il suo avvicinamento a Sigismondo Malatesta fosse dovuto per lo più ai promettenti rapporti intrattenuti con la famiglia d’Este. 

Con tanta preparazione e con sì alti ideali l’Alberti, oltrepassata la quarantina, intraprese la pratica dell’arte e proprio al principio ebbe la fortuna d’imbattersi in un signore che corrispondeva pienamente al tipo di mecenate ricco d’iniziativa e d’intelligenza che egli aveva immaginato. (Emilio Londi, 1906)

Contemporaneamente ai restauri interni della Chiesa di San Francesco, intrapresi dal 1447, ebbe inizio il portentoso e non semplice studio del rivestimento esterno per la struttura preesistente. Benché non sia possibile accertare la presenza dell’Alberti a Rimini prima del 1449, è un chiaro dato di fatto che il teorico abbia iniziato la stesura dei suoi progetti solo dopo aver visitato personalmente la Chiesa e soprattutto i monumenti romani che padroneggiavano in città. 

L’Alberti immaginò di circondare la vecchia chiesa con un grosso muro di rivestimento che permettesse di svolgervi i motivi architettonici, espressione delle nuove idee e della nuova civiltà. Ed ancora: bisognava creare un’opera tale che soddisfacesse il desiderio di gloria del mecenate e ricordasse ai posteri la sua grandezza; prese l’esempio del monumento che nell’antichità aveva celebrato i conquistatori, l’arco di trionfo, e pose al lato della chiesa le tombe dei glorificatori di Sigismondo. (Emilio Londi, 1906)

Se l’idea portante del restauro sembra esser stata, sin dall’inizio, quella di sostituire ad un carattere religioso legato alle mediazioni popolaresche, «una religiosità venata di idee platoniche, austera» è nell’ essenziale progettazione di linee pulite e forme semplici che si esprime la nuova natura dell’edificio sacro: 

Gli architetti del Quattrocento non si erano ancora posti il problema di come doveva essere la facciata di una grande chiesa del Rinascimento; l’Alberti […] lo risolve con l’aiuto dei monumenti antichi e dei leggiadri esemplari dello stile romanico-toscano, specialmente per il suo bel S. Miniato […] Si guardi la parte inferiore della facciata del Tempio Malatestiano: la disposizione degli elementi architettonici che si riscontra nell’arco innalzato in onore di Augusto a Rimini. Vi è fedelmente prodotta e ripetuta tre volte. (Emilio Londi, 1906)

L’arcata centrale del Tempio si presenta più ampia rispetto alle arcate laterali che, invece, poggiano sopra un alto podio che circonda tutto l’edificio con una composizione ornamentale, in marmo rosso di Verona.

I fianchi dell’edificio, tanto semplici nelle forme quanto poderosi e solenni, si condensano in una serie di archi sotto cui, nel corso del tempo, avrebbero dovuto trovar eterno riposo i sarcofaghi con le spoglie delle personalità più illustri della dinastia. 

Nei fianchi è avvertibile l’indifferenza del progettista nei confronti dell’architettura gotica delle cappelle interne; infatti non solo gli archi se ne stanno ben discosti dalla parete, ma non tengono assolutamente conto delle sue aperture. Durante la costruzione è probabile che l’architetto si sia reso conto di questa situazione, magari variando la distanza degli archi; ma l’Alberti subito avvertiva che sono la regolarità, le proporzioni e la simmetria a dare armonia, musicalità all’architettura, e diffidava dal modificare quanto aveva stabilito. (Pier Giorgio Pasini, 2009)

Si ritiene che l’intero apparato lapideo esterno fu realizzato tra il 1450 e il 1460, differentemente da quanto Sigismondo volle far risultare riguardo la fine dei lavori: se, infatti, la data dell’Anno Santo 1450 risulta essere quella celebrata ufficiosamente, è da considerare che larga parte delle cappelle e degli esterni erano ancora in lavorazione oltre quella data simbolo.

Il 1450 era l’anno perfetto da dichiarare, appunto perché ‘santo’, e soprattutto ‘centrale’ nel secolo che amava la simmetria, considerata sinonimo di armonia.  (Pier Giorgio Pasini, 2009)

Per quanto concerne la materia prima, ovvero le pietre e il marmo, la reperibilità non si tradusse in un’impresa facile: «come tutte le città padane, Rimini è una città di mattoni. Ma il tempio fu voluto tutto di pietra all’esterno e di marmo all’interno».

Così molta pietra fu ottenuta smantellando parte dei monumenti romani in terra malatestiana: si arrivò a smantellare quel che rimaneva del porto romano e persino a deturpare le preziose incrostazioni marmoree delle basiliche bizantine di Classe, fuori dal territorio di possedimento. Matteo de’ Pasti, che coordinò la progettazione degli spazi interni del Tempio, fu incaricato dal suo signore dell’approvvigionamento di marmi e pietre, tra le cave veronesi e carraresi, oltre che in altre località ancora. I materiali, il loro trasporto e le manovre di spostamento dei pesi ebbero un costo molto alto che lo stesso Sigismondo si pregiò di far riportare sulle epigrafi votive dell’edificio. 

Non saprei se ammirare il suo ardore nel non permettere interruzioni alla nuova fabbrica o se piuttosto rimproveragli il cieco entusiasmo che non gli fece rispettare tanti monumenti antichi e gloriosi: il vetusto porto di Rimini, […] la Chiesa di S. Apollinare e persino alcuni edifici dell’arcipelago greco […]  (Emilio Londi, 1906)

Putti di Agostino di Duccio per gli interni del Tempio malatestiano; © Archivio fotografico del Comune di Rimini, foto di Gilberto Urbinati 

Spazi interni. L’amore per la sontuosità decorativa di Matteo de’ Pasti

L’interno dell’edificio sacro consta di un’unica navata con capriate a vista, sui cui lati perimetrali aprono otto cappelle. La navata conduce ad un’ampia abside semicircolare. Si ritiene però che per la chiusura del Tempio, l’Alberti avesse avuto originariamente in programma una copertura a botte per la navata, e una grande cupola rotonda sovrastante l’area del presbiterio: 

Bisognerebbe sapere a questo proposito quali erano le idee per la copertura […] Perché i lavori per l’attuazione dei suoi disegni, cominciati con grande entusiasmo trovarono presto gravi difficoltà quando si giunse al punto di dover coprire l’edificio. Noi possediamo fortunatamente alcune lettere […] La prima, tra l’Alberti e Matteo de’ Pasti […] (Emilio Londi, 1906)

Matteo de’ Pasti, miniaturista e medaglista ferrarese dalla spiccata cultura, fu incaricato da Sigismondo di occuparsi dell’architettura interna del Tempio, coadiuvando e dirigendo l’operato dei tanti artisti, scultori e operai che curarono le creazioni decorative delle pregevoli cappelle. L’amore per la varietà e il dettaglio di natura gotica, condussero de’ Pasti a incentivare decorazioni «minuziose e fastose, di gusto tradizionale».

L’architettura e l’assetto decorativo generale dell’interno del Tempio sono molto lontani dalla rigorosa mentalità dell’Alberti […] Nonostante ciò deve aver dato più di un consiglio anche per quanto riguarda l’interno: sulla scelta dei rivestimenti marmorei per le pareti, sul dover privilegiare la scultura alla pittura e di preferire una scultura a bassissimo rilievo, […] utilizzare motti sapienziali, e soprattutto conferire al Tempio una sacralità non ‘inquinata’ da devozioni particolari.  (Pier Giorgio Pasini, 2009)

Quest’ultimo aspetto, evidenziato da Pier Giorgio Pasini, è di fondamentale importanza se si considera che il nuovo edificio sacro voluto da Sigismondo, declina ogni possibilità di essere indirizzato specificamente ad uno o più santi, in quanto quel che si va a celebrare è la Divinità Suprema, Dio creatore dell’universo a cui «le anime elette sono tenute a rendere omaggio, ma in un rapporto razionale». Motivo per cui all’interno dell’edificio si prediligono rappresentazioni, venate di idee platoniche, come i corpi celesti e le costellazioni presenti nella Cappella dei Pianeti. 

Non giudico il valore di queste rappresentazioni, alcune delle quali vere opere d’arte; credo che l’idea di così sfarzosa decorazione, poté essere ispirata da Sigismondo e da Isotta, studiosa di storia e di filosofia […] (Emilio Londi, 1906)

Se pertanto, nel Quattrocento, la presenza di quelle che furono definite ‘contaminazioni pagane’ destò sgomento e persino qualche accusa in odore di eresia, ad oggi è doveroso valutare l’intenzione del mecenate di dialogare, per mezzo di un codice di rappresentazione elitario, con coloro che dispensavano e coltivavano l’amore per i segreti della filosofia e la sofisticata visione «sulle cose e sul cosmo» di un secolo ardentemente pensoso. 

Si parlò di ‘Tempio d’amore’…

A partire dal XIX secolo, invece, a catturare l’attenzione fu la ripetizione decorativa lapidea della sigla SI, letta da molti come l’intreccio delle prime due lettere dei nomi Sigismondo e Isotta: 

[…] ma come suo padre Pandolfo aveva usato la sigla PA, e suo fratello Novello NO, e il suo rivale Federico FE, così Sigismondo usò un po’ ovunque, anche nelle sue bandiere e sui finimenti dei cavalli, la sigla SI che è la prima sillaba del suo nome e che significa semplicemente il suo nome. Da allora si incominciò a parlare del Tempio Malatestiano come di un ‘tempio d’amore’ […] (Pier Giorgio Pasini, 2009)

Decorazione lapidea riportante la sigla SI; © Archivio fotografico del Comune di Rimini

Lungi dalle letture che si susseguirono nei secoli e che continuano ad appassionare storici e visitatori del Tempio, quello del signore di Rimini per Isotta degli Atti fu un amore che la storia ci ha restituito come generoso, straordinario, eterno. A dispetto degli eventi, degli uomini e della storia stessa. 

[…] gli ultimi suoi pensieri furono per Isotta, la bella e saggia Isotta, che gli era sempre stata fedele e degna compagna nella travagliata sua vita, e per la chiesa ove loro iniziali intrecciate e le loro tombe vicine avrebbero ricordato ai posteri l’amore e il desiderio di gloria che li avevano insieme infiammati.  (Emilio Londi, 1906)

Riferimenti bibliografici 

Alberti L.B., Orlandi G. e Portoghesi P. (a cura di), De re aedificatoria, Edizioni il Polifilo, Milano 1966.

Londi E., Leon Battista Alberti Architetto, Tipografia Barbera Alfani e Venturi, Firenze 1906. 

Pasini P.G., Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000. 

Pasini P.G., Guida breve al Tempio Malatestiano, il Ponte, Rimini 2009. 

Portoghesi P., Il Tempio Malatestiano, Sadea-Sansoni, Firenze 1965. 

                                          

Floriana Savino

Laureatasi con lode in Arti Visive nel febbraio 2020, Floriana Savino alterna il suo interesse per l’espressione artistica alla continua ricerca in ambito architettonico e antropologico-culturale. Tra le sue partecipazioni vi sono mostre ed esposizioni a carattere nazionale e internazionale. Tra le sue pubblicazioni, diversi contributi per "Arkt.Space"; ed inoltre figura in diverse pubblicazioni.

Potrebbe anche interessarti...