Ho sognato di un nido in cui le età non dormivano più. (Adolphe Shedrow, 1956) 

«Una casa di vita» – ci dirà Bachelard – «Nulla di più assurdo, positivamente parlando, delle valorizzazioni umane delle immagini del nido». Costruzione primordiale, che rinvia all’idea dell’abitare, all’idea di un fisico, personale, poetico e materico appropriarsi di un segmento di mondo. La fenomenologia filosofica del nido, muovendo dalla meraviglia, ripercorre e si intreccia all’idea di un tempo vissuto e al contempo sospeso, in cui tutte le sensazioni inafferrabili, provate al cospetto della sua immagine archetipica semplice e marcata, sembrano richiamare un’intimità universale. 

Il nido è precario e tuttavia mette in moto in noi una rêverie della sicurezza […] Se facciamo del riparo precario che è il nido un rifugio assoluto, torniamo alle sorgenti della casa onirica. La nostra casa, assunta nel suo potere onirico, è un nido del mondo. […] Traducendo allora nel linguaggio dei metafisici odierni l’assoluta ingenuità della sua rêverie il sognatore può dire: il mondo è il nido dell’uomo. (Gaston Bachelard, 1957)

Tadashi Kawamata: Nidi nel cielo di città 

[…] un enorme nido, agglomerato di terra e di cielo, e di due tempi, uno che abbiamo a disposizione e uno che ci fa difetto. (Boris Pasternak, 1954)

Il nido nella sua forma semplice, da cui ugualmente traspare l’immane l’impegno e l’operosità dell’abitante-costruttore, emana un’aura di armonia, che fa della sua natura effimera e precaria, un punto di partenza per pensare all’esistenza stessa: 

[…] noi viviamo, volta a volta, nella sicurezza e nell’avventura. Essa è cellula e mondo. La geometria è trascesa. Un’immensa casa cosmica si trova in potenza in ogni sogno di casa. Così, contemplando il nido giungiamo all’origine di una fiducia nel mondo, riceviamo un assaggio di fiducia, un appello alla fiducia cosmica. (Gaston Bachelard, 1957)

Nest Tadashi Kawamata, vista cortile della Magnolia Palazzo Brera

Il nido, nella sua precaria e nobile manifestazione, torna ricorrentemente nella poetica dell’artista Tadashi Kawamata (Hokkaido, 1953), che a partire da marzo sino a luglio 2022 è protagonista del progetto milanese intitolato, appunto, “Nests in Milan”. Con la curatela di Antonella Soldaini, l’intervento artistico a carattere pubblico ha visto la partecipazione di diversi edifici e spazi, sia interni che esterni: partendo dall’installazione presso la Building Gallery, che ne ha presentato l’iniziativa. Si sono susseguiti ulteriori interventi al Grand Hotel et de Milan, al Centro Congressi Fondazione Cariplo e nel Cortile della Magnolia, a Palazzo Brera. 

Alle quattro installazioni si addizionerà l’intervento conclusivo, presso ADI Design Museum, teso alla realizzazione di un’opera site-specific, che vanterà la compresenza di tutto il legno usato per le quattro installazioni sovra citate. Aspetto quest’ultimo fondamentale, se si considera la grande importanza riservata da Kawamata alla natura effimera del prodotto artistico: 

Il legno delle cassette di frutta, per esempio, […] è un materiale di uso comune, con una funzione pratica, ma allo stesso tempo dal carattere effimero. Una volta realizzate, le cassette vengono gettate via. Questo aspetto di caducità è interessante per me e si ricollega al mio lavoro. Farò un progetto temporaneo, sarà costruito e poi si dissolverà.  (Tadashi Kawamata, 2017)

Per l’artista giapponese, universalmente conosciuto per i suoi interventi a carattere pubblico e dalla forte valenza sociale, il nido nella semplicità della sua forma, si fa portavoce di rimandi ad un’età pura perché innocente; quella dell’infanzia sognante. Nei suoi rimandi riguardo l’importanza dell’immagine archetipica, ricorre spesso il ricordo di «quella casa sull’albero inabitabile» e, al contempo, carica di analogie con il flusso della vita.

La casa nido non è mai giovane […] Vi si ritorna, si sogna di tornarvi come l’uccello torna al nido, come l’agnello torna all’ovile. Il segno del ritorno evoca infinite rêverie, dal momento che i ritorni umani avvengono sul grande ritmo della vita umana, ritmo che supera gli anni, che lotta contro tutte le assenze. […] i ricordi sono sogni, perché la casa del passato è diventata una grande immagine, la grande immagine delle intimità perdute. (Gaston Bachelard, 1957)

Servendosi poi di materiali poveri, organizzati e uniti tra loro in reticolati che inneggiano alla maestria artigiana, Kawamata, che aveva iniziato la sperimentazione dell’elemento nido con forme che ricordano le costruzioni umili e ingegnose delle baracche, analizza il rapporto dell’individuo con gli spazi della città ricca e strutturata:

Traggo la mia ispirazione dalla vita, dalle persone […] Le città, seppur caotiche, tendono ad essere (almeno in teoria) rigorose, dritte, ordinate. La vita, invece, tende ad essere più fluida. Per il mio lavoro è molto importante il senso dello scorrere del tempo, la sensazione di qualcosa di naturale e di fluido. Per creare ho bisogno di sensazioni. Rifuggo da ciò che è troppo rigido e ordinato. […]Non posso e non voglio creare qualcosa di perfetto. Le mie installazioni sono sempre qualcosa in divenire perché la vita è un work in progress, la vita non è perfetta, noi stessi non siamo perfetti […] (Tadashi Kawamata, 2017)

I nidi sempre in divenire di Kawamata si impossessano così di angoli di edifici storici e culturali, per una temporaneità che lascia spazio alla libertà di un sogno:

La casa conquista la sua parte di cielo, ha tutto il cielo come terrazza. (Gaston Bachelard, 1957)

Agglomerato di terra e cielo: gli Igloo di Mario Merz 

Mario Merz, Senza titolo, 1984, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, ph Renato Ghiazza, courtesy Archivio Merz, Mario Merz © SIAE

La mia casa è diafana, ma non di vetro. Apparterrebbe piuttosto alla natura del vapore. I suoi muri si condensano e si allentano secondo il mio desiderio. Talvolta, li stringo attorno a me, come un’armatura isolante […] Ma, talvolta, lascio allargarsi i muri della mia casa nel loro spazio proprio, quello della infinita estensibilità.  (Georges Spyridaki, 1950) 

La circolarità di «un tempo che a tratti pare esser sospeso» rivive, con gran forza poetica, negli Igloo di Mario Merz (Milano 1925 – Milano 2003). A partire dal 1968, infatti, l’artista inizia la sperimentazione di installazioni dalla struttura semisferica che andranno ad «occupare uno spazio autonomo e indipendente, ponendosi in relazione con esso».

Gli igloo […] simbolo o metafora della condizione dell’uomo e del suo modo di abitare il mondo. Nell’immaginario d’artista, nell’igloo convivono il contemporaneo e l’arcaico […] Al suo interno coesistono elementi e concetti in opposizione – leggero-pesante, chiaro-scuro – che vengono accostati per dare vita a nuove entità. L’igloo è un’immagine sintetica, che nella sua forma semisferica include gli elementi della realtà naturale e di quella urbana tra cui la luce, l’acqua, la terra, il legno e le pietre, per trasformarle in una visione poetica […] Definito da Merz con un’ampia varietà di termini – tra cui capanna, cupola, tenda, ventre, cranio, terra – l’igloo materializza un’architettura primordiale in dialogo con la complessità del contesto sociale e industriale della seconda metà del Novecento.  (Vincente Todolí, 2018) 

Mario Merz, Senza titolo, 1988, Reggia di Venaria, Torino 2021, ph Renato Ghiazza, courtesy Archivio Merz, Mario Merz © SIAE

Con la nascita degli Igloo, Merz pare appropriarsi della tridimensionalità degli spazi per cui assembla le sue installazioni. Un po’ come per Kawamata, i materiali e gli elementi impiegati per ogni creazione sono studiati e si legano a gran coro, all’ambiente per cui sono pensati. La ricombinazione di quegli stessi, diviene anch’esso un passaggio estremamente importante, se si considera che Merz ricorre agli Igloo per indagare il rapporto dell’arte con lo spazio, facendo in tal caso grande riferimento all’idea stessa di abitare uno spazio: 

La storia dell’architettura è la storia dell’uomo attraverso il tempo; da un lato, una storia di costruzione e affermazione del proprio dominio sulla natura (dalla capanna alla città), dall’altro, una storia di distruzione e di rovina (i margini dei vetri rotti dipinti a spruzzo evocano tracce precarie di campiture svanite, immagini consumate). (Mario Merz, 1994) 

Tra i materiali cari all’artista per la costruzione dei suoi Igloo spiccano la pietra, simbolo della forma più tradizionale dell’abitare e del costruire, il vetro, l’argilla, stucco, chiodi, fil di ferro e tutti quegli altri elementi che l’esperienza e la vita hanno condotto sotto i suoi occhi e tra le sue mani: 

[pezzi di vetro] trovati da un vetraio, tutti impolverati, che ho incorniciato con lo stucco. Stuccandoli diventavano un tipo di materiale molto pesante in contrasto con l’idea di vetro, che è trasparente e leggero. La luce messa dietro a questo pacchetto di vetri li ammorbidiva e nello stesso tempo diventava distantissima. (Mario Merz, 1985)

Presto gli Igloo, come nel caso del Senza titolo,1984, incontrano le luci al neon tanto care all’operato d’artista; ne deriva uno studio ancor più attento al rapporto del dentro-fuori, tra spazio delineato dalla mano creatrice e spazio collocato nell’altrove più prossimo. A tal proposito Vincente Todolí, curatore della mostra “Igloos” (2018-19) presso Pirelli Hangar Bicocca con la collaborazione della Fondazione Merz, scriverà: 

Tre igloo si integrano come scatole cinesi che, grazie al riflesso dei vetri, sembrano moltiplicarsi all’infinito. Questo lavoro veicola lo sguardo in una dinamica dall’interno verso l’esterno.

Mario Merz, Architettura fondata dal tempo, architettura sfondata dal tempo, 1981, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Deposito a lungo termine Fondazione Marco Rivetti, ph Paolo Pellion, courtesy Archivio Merz, Mario Merz © SIAE

Un nido, che si condensa in «un accumulo di fascine impilate l’una accanto all’altra», intona versi di poesia al cospetto di un poderoso igloo di sei metri di diametro, in uno spazio dove dialogano in armonia ben tre diversi elementi come vetro, una notevole tela bianca dipinta e rami secchi d’albero (Architettura fondata dal tempo, 1981).

Bibliografia di riferimento 

Bachelard G., La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 2006.

Merz M., Voglio fare subito un libroHopefulmonster, Torino 2005.

Merz M., La natura è equilibrio, Hopefulmonster, Torino 2016.

Verzotti G., Mario Merz. L’artista e l’opera, materiali per un ritratto, Marinotti, Milano 2018. 

Cataloghi 

Tadashi Kawamata. Tree Huts, Collectif (a cura di), Presses du Reel, Dijon 2010.

Mario Merz. Igloos, Todolì V. (a cura di) in collaborazione con Fondazione Merz, Pirelli Hangar Bicocca, Milano 2019.

Articoli 

Spena G., Spontaneità e tempo. Intervista a Tadashi Kawamata, in “Artribune”, 7 maggio 2017. 

Floriana Savino

Laureatasi con lode in Arti Visive nel febbraio 2020, Floriana Savino alterna il suo interesse per l’espressione artistica alla continua ricerca in ambito architettonico e antropologico-culturale. Tra le sue partecipazioni vi sono mostre ed esposizioni a carattere nazionale e internazionale. Tra le sue pubblicazioni, diversi contributi per "Arkt.Space"; ed inoltre figura in diverse pubblicazioni.

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